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Semelia era un paese che sorgeva su un pendio di fronte alla collina con la villa. Case ammucchiate una addosso all’altra, quasi fossero state costruite in faccia ad uno spavento. Anziché alla piazzetta. Una fila di abitazioni proseguiva dal lato est, come in processione, fino alla chiesa del Carmine. E questo era il corso con pochi negozi. La parte nuova si allungava verso la statale 106, come verso il progresso. Ad un chilometro da essa viaggiava la ferrovia, oltre si spaparanzava una pianura, in fondo si stagliava la cresta della pineta forestale, e il mare.
Il maresciallo Falbo entrò con aria svagata nel bar di Biamonte per un caffè. In un angolo della sala quattro uomini si giocavano l’ozio a briscola, altri due facevano da pubblico.
Filippo Spataro gli gridò: “Salutiamo!”
“Salutiamo.” E si rivolse disinteressato a Teresa che teneva cassa e banco: “Comare che si dice?”
“Niente di nuovo”, servendogli la solita risposta, la donna.
“E di Alessandro Corallo?”
“Che era un vero signore!” con fervore.
“Chissà chi è stato!” posò sul bancone insieme alla tazzina il maresciallo.
“Un mascalzone!” lei, mentre stappava una birra a Spataro che si era avvicinato per ordinarla. Tutti sapevano che questi, uno ormai guasto, era nel circondario il luogotenente di un fantomatico capo della malavita.
“Chissà chi è stato!” ripeté il carabiniere fissandolo sospettoso, e uscì.
Nella giornata d’autunno bellissima, senza ieri.