Il cielo era sconquassato dal suo malumore, da lampi e tuoni, e tremava come una vetrata appannata. Poi precipitò il nubifragio violento di un ultimo ottobre, sul paese.

Sul casale in cima alla collina. Nella luce di una delle finestre basse si proiettarono improvvisamente due ombre, sembravano lottare, torcersi, balenò una lama. Poi lo schermo ritornò sgombro. Sulla porta apparve un uomo molto bello, in una maglietta azzurra. Trasognato, si teneva la pancia con la destra. Respirò assaporando il temporale ancora un po’ salato, scese i gradini e, soave nella pioggia, si avviò nel parco.

Il pastore maremmano gli corse incontro scodinzolando devoto, nonostante l’acquazzone. Lui lo accarezzò: “Polpetta, è finita. Vai, copriti.” Il cane non fiutò le sue parole, forse il suo odore, e si ritirò nella cuccia guaiolando. Lo continuò a seguire con gli occhi, con un ululato inusuale. Non era stato mai un campione di guardia, gli era stato assegnato un istinto già consumato, e quel padrone che l’aveva allevato dalla nascita.

L’uomo staccò un cachi dall’albero e ne gustò un morso. Un sommovimento di budella lo costrinse a serrare il polso che arginava le viscere, sulle quali sembrava premere anche, per tampone, il buio fitto che c’era intorno. Si accorse di sudare e lasciò cascare il frutto ormai superfluo.

Lo scroscio torrenziale pareva curarlo, e lavava la roba calda che gli ciondolava dal braccio. Rimuginò che non aveva l’ombrello, come al solito, che non aveva più un riparo d’esistenza.

Si ricordò di quando bambino cercava di afferrare una manciata di pioggia, aspettandosela nel pugnino come un mazzetto di spaghetti d’acqua. Tese aperta la sinistra e la richiuse di scatto, riprovandoci. Si guardò nella mano. E sorrise. Con le altre dita intanto cercava di trattenere gli intestini, il filo reciso della sua vita.

Si perse nella notte, col sollievo di stare ancora un po’ in comitiva.