Nonostante si fosse sparsa la fandonia che quel cane davanti al cimitero avesse la rabbia, i fanciulli delle scuole il pomeriggio erano lì sullo slargo. In veglia. Interrotta da qualche chiasso, da piccoli scoppi di monelleria. Come quello tra Marco, un ragazzetto smilzo, e Luca, uno polputo, perché volevano sedersi accanto a Marta, una bambina tutta occhi e lontane promesse.

I due galletti s’ingiuriavano, i coetanei, incitando chi l’uno chi l’altro, si accalcarono intorno per assistere alla lotta. Prima di azzuffarsi, le ultime beccate:

“Tu sei un pezzente!”

“Tua madre è una cicciona!”

Dopo qualche botta e ruzzolone furono divisi, entrambi perdevano dal naso, uno sangue povero, l’altro sangue grasso. Entrambi all’inizio della strada, sulla piazza di coloro che erano arrivati.

La bambina tutta occhi e lontani raccolti accompagnò alla fontanella il sangue grasso.

Verso il tramonto venne Caterina, consolò il cane, ritirò la salvietta intatta del giorno precedente e approntò su una tovaglietta pulita un fumante piatto di carne al sugo. Ma Polpetta non ne annusò il profumo, né si mosse. E lei lo accarezzava piangendo, accucciata nella stessa pena.

Giovanni sbarrò il camposanto, disse ai due figli e agli altri di rientrare. Salutò calorosamente il maremmano strofinandogli il muso. Rialzò Caterina e se la portò via. Come un languore.