Filippo Spataro entrò in caserma, come in un groviglio di spine.

Falbo, che lo aveva convocato, lo accolse con falsa cordialità: “Siediti!” mischiando un mazzo di carte. “Ti propongo una partita secca a scopa.”

“La posta qual è?”

“Se vinco io farò un nome, tu mi dirai se è stato lui o no. A uccidere Corallo.”

“Se perdi?” Gli aculei non pungevano poi tanto.

“Io sono sicuro di una rogna, ma non ti perseguiterò finché non avrò una prova inconfutabile.”

“Ci sto, sono uno pulito. Ogni fattaccio lo affibbi sempre a me, è un chiodo il tuo. Quanto a Corallo so con certezza chi non è stato, e basta.”

“D’accordo!” si accontentò.

La partita piegò verso la legge, dopo poco erano dieci a sei. Poi la fortuna sembrò sbendata, strabica. Finalmente il maresciallo riuscì ad accaparrarsi il settebello e la vittoria. Si affrettò a riscuotere: “E’ stato Vincenzo Murra ad assassinarlo? Ho una testimonianza contro!”

“Potrei accusarlo con facilità visto che non può più discolparsi, ma non sarebbe la verità. Il pomeriggio del delitto io, Vincenzo, Armando Sullo il panettiere ed Ernesto l’esattore municipale siamo rimasti nel bar Stella a giocare a tressette dalle cinque alle nove.”

Spataro si alzò illeso e compiaciuto di non aver perso molto. Si avviò angosciato verso casa, nella sera che calava colposa. Riposte le carte, la sua mente ricominciava ad alzare l’insonnia delle due notti precedenti.

Quel maledetto toro, non c’era stato modo di addossarlo al camion. A momenti fregava pure lui, se l’era cavata con poche escoriazioni sul braccio. Invece aveva scaraventato Vincenzo a terra e, mentre cercava di rialzarsi, lo aveva infilzato con un corno nella gola e l’aveva sollevato per aria, strattonandolo, nel tentativo di sfilarselo.