Il cielo era stellato nella valle dell’alto corso del torrente Scilo.

Al centro del recinto il toro podolico Usto, dalla mole preistorica. Sembrava all’erta, la luna piena gli colava sulle corna, sul profilo della schiena nera. Inquieto annusava la profondità della notte. Intorno i giovenchi accovacciati ruminavano il primo sonno.

Così aveva trovato le cose il guardiano al controllo delle ventitré, scrutando dalla strada, senza scendere dalla Vespa. Chiamato dalla voce nota, Usto si era girato, come a rassicurare che i giovani giacevano senza molestie.

Il maresciallo era stato buttato giù dal letto alle cinque del mattino.

“Trecento milioni! Trecento milioni!” ripeteva smanioso don Martino De Praia, dai sopraccigli fitti e cespugliosi, come a barriera delle turbolenze della fronte.

Durante le ore piccole erano scomparsi i centotrentasette vitelloni dall’addiaccio di erba medica dove erano all’ingrasso.

Falbo insieme a don Martino, seguì le tracce. Avvelenati i cani, i bovini erano stati convogliati su un lato del torrente e spinti nei camion acculati all’argine. Erano riusciti a caricarli tutti. Tranne uno.

Usto era steso su un fianco tra le pietre, con le zampe anteriori spezzate con una roncola, e aveva lacrime d’ambra grosse come provole.

Il vaccaro commiserava l’animale, mentre diceva al maresciallo che era stato un toro leggendario, quelli che portavano le mucche le volevano coperte solo da Usto, per anni capobranco incontrastato della mandria di centinaia di fattrici.

Era lì perché destinato al mattatoio. Tre anni prima, un pomeriggio gli si era ribellato il secondo nella gerarchia. Usto debilitato dalla stagione di monta aveva avuto la peggio, davanti alle vacche apparentemente spassionate, ed erano accorsi i custodi, a salvarlo dalla furia del rivale. Un’ora dopo era stato condotto con i vitellini al pascolo della Sila, a circa sessanta chilometri, spacciato in declino.

Un mese dopo, recuperate le forze, sparì dalla montagna. Una mattina presto si sentì un insolito trambusto nella mandria marina, poi un muggito terrificante. Usto aveva superato la palizzata e si era scagliato sul giovane che lo aveva umiliato. Lo aveva sventrato contro il muro della stalla. Davanti alle mucche apparentemente spassionate. Riprese il ruolo di maschio dominante per un paio d’anni. Ma ora era troppo vecchio.

Il maresciallo rimase affascinato dal racconto, intanto si tormentava il gozzo come a fare posto ad un altro caso irrisolto. Inutile spremersi le meningi, gli animali a quell’ora erano già oltre lo Stretto di Messina, non li avrebbe trovati neanche il Padreterno più.

Il macellaio procedette. Gli conficcò la punta di uno spadino cortissimo tra le corna. Morte istantanea. Si accinse a scannarlo, ma fu dissuaso.

“Non se ne fa niente. Ci ho ripensato!” don Martino, restituendogli una mazzetta di contanti. Poi disse ai suoi: “Lasciatelo al sole. Al tramonto sotterratelo sotto l’ontano vicino allo Scilo.”

A primavera dopo essersi abbeverate al torrente, le mucche in calore o già gravide, si sarebbero radunate intorno a quell’albero come ad altri, ignare e istintive, frustando con la coda i tafani. Tutto come da sempre, inesorabilmente, secondo la rituale disciplina della vita.