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Iolanda aveva diciott’anni ed era l’unica figlia del barone Simari, cresciuta sulla collina. Dalla sua stanza, l’ultima del corridoio, vedeva il precipizio e in fondo canterellare lo Scilo.
Era bellissima ed esuberante, indomabile. Eppure quella mattina, tra le braccia del suo amato in un cespuglio folto nel letto del torrente, aveva deciso di scorrere i suoi sensi oltre le chiuse, di cogliere la sua illibatezza. Ma un attimo prima le era esplosa sulla tempia una fucilata. Un cacciatore vedendo muovere gli arbusti aveva sparato alla cieca, ad una probabile e inattesa cacciagione. Così Iolanda era morta sul colpo, selvaggina di nessuno. Mai.
Il barone alla vista della figlia uccisa impazzì. Un sabato si risolse a scendere a passo svelto l’alveo del torrente fino alla foce, e a proseguire sempre a passo svelto affondando nello Ionio. Voleva camminare il mare.
La villa fu abbandonata. Girava voce che in quel casale disabitato ci andava a dormire la luna, di giorno. Qualche volta anche di notte, lasciava l’insegna luminosa su in cielo e scivolava cheta cheta nella sua camera.
Il cadavere del barone fu respinto dopo qualche ora, su una spiaggia deserta, con i piedi verso il largo. Aveva un’espressione compiaciuta ed era tutto gonfio, come se si fosse equipaggiato, per riprendere il mare verso l’Africa.