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Il giorno dopo il funerale tutti sapevano nei vicoli che Polpetta era rimasto in attesa all’angolo del cimitero, con gli acquosi occhi di pastore puntati sull’entrata.
I ragazzi avevano copiato la notizia e durante il pomeriggio si erano avvicendati sullo spiazzo del camposanto a fargli compagnia. Tanti gli avevano portato pane e altre tentazioni, ma esso si volgeva appena per gratitudine e non assaggiava niente.
Verso il tramonto arrivò dal cane anche Caterina Russo. Contrita, gli scarruffò a lungo il pelo, affettuosamente. Quindi stese una salvietta sull’asfalto davanti al muso dell’animale, che era rimasto coricato pur accennando gradimento con la coda, e ci mise sopra una porzione di manzo lesso. “Mangia, dai!”
Polpetta non provò nulla, e Caterina gli lisciava il dorso bianco. Poi inginocchiatasi, gli prese il capoccione nelle mani e vi accostò una guancia, per piangere. Forse insieme.
Giovanni la sollevò con fermezza e la condusse nel motocarro. Anche i fanciulli si avviarono un po’ tristi verso casa. Consapevoli di assistere ad una cosa di adulti, forse grande pure per i grandi.
Polpetta rimase con la testa appoggiata sulle zampe anteriori, solo, con gli occhi aperti sul cancello desolato di Alessandro.