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Il casale si ergeva su una collina dal dolce pendio ai lati, tranne in quello che sporgeva sul torrente Scilo, dove sembrava esserne stato asportato un pezzo di netto, come un morso a una mela. Una parte tranciata nella roccia viva, come se la natura ne avesse ritagliato una porzione precisa per finire altrove un altro colle, lasciando un enorme e impraticabile baratro biancastro fino al letto del torrente, senza alcuna vegetazione, come una cava di arenaria.
Era stato costruito sulla cima del poggio, verso la fine dell’Ottocento, da un barone che, indifferente alle leggende sul sito, ne aveva fatto una villa di dimora abituale.
Un portale con stipiti scolpiti, e coperto da un balcone, riceveva in un ampio salone abbracciato da due rampe semicircolari di scale fino al piano di sopra, dove soggiornavano una vasta aula e le otto camere da letto con bagno, con camino. Quattro stanze si affacciavano sullo Scilo, dalle finestre incorniciate dalla pietra lo sguardo precipitava nel dirupo.
Al pianoterra si stipavano dispense e cucine, tripodi, caldaie stagnate, vasellame misto. Sul fianco sinistro una casetta custodiva il forno, di fronte, in un fabbricato lungo e sobrio, si barricavano le cantine, il granaio e il deposito di derrate varie.
Il barone aveva fatto circondare la proprietà con mura di calcestruzzo, allacciate da un cancello di ferro lavorato, antistante al paese. Vicino all’ingresso, sulla destra, aveva fatto edificare le scuderie per i cavalli. Del resto dell’altura ne aveva fatto un parco.
Si godette la residenza per anni, in barba alle dicerie della gente. Ma una sera d’estate il giovane fattore gli si presentò al portale con la baronessina Iolanda penzolante dalle braccia, stupendo esemplare di un dolore immenso.