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Intermezzo
Anno 203 a.C.
Annibale. A disagio da ore su un masso del fiume Corace, sulla spiaggia della nuova Skylletion, dove aveva acquartierato le sue truppe. Sorvegliava lo Ionio, per scorgere le quinqueremi fenicie che lo avrebbero riportato in patria. Le notizie che si protendevano dall’Africa erano preoccupanti: un generale romano di nome Scipione aveva battuto ripetutamente i cartaginesi e minacciava la loro città.
Era impaziente di salpare, per sconfiggere quell’impunito comandante in una battaglia campale. Da tredici anni gli negavano questa soddisfazione.
Scrutava l’orizzonte. L’elmo che non si levava mai, da quando aveva perso l’occhio destro sugli Appennini, cominciava a scottare. Ma era la sua amarezza che avrebbe annegato volentieri. La sua campagna era fallita. I romani lo lasciavano rovistare nelle periferie del loro territorio come uno sciacallo. La sua presenza ormai puzzava come un barile di sarde, quel fetore che gli era rimasto nelle narici da piccolo, quando scendeva col padre Amilcare Barca giù dalla Byrsa fino al mercato.
Decise di rientrare nella tenda, rammaricato che non c’era neanche il suo più fedele amico, Imilcone: era uscito in perlustrazione nei dintorni con uno squadrone, verso Kroton.
Sguainò un ordine inequivocabile alla sentinella: “Mesma.” Si slacciò la corazza infuocata e si distese, attizzando ancora i suoi propositi. Quello sul canopo lì a lato. Era un bauletto sigillato con stagno, opera di un artigiano di Petelia. E il suo occhio fu trafitto dalla luce stantia di uno spasimo che sopravviveva incolume nel livore.
… L’urlo dell’accampamento rotolava nella terra con quel capo mozzo. L’aveva riconosciuto e tenuto sul palmo, fissandolo con dolore e odio smisurato, quasi a volergli ridare l’udito.
“Asdrubale, seppellirò la tua testa a Cartagine!” aveva giurato …
Il momento stava arrivando.
Dopo essere stata di nuovo perquisita e palpata da due piantoni, la giovane prigioniera fu introdotta. Altera, bellissima, imperturbabile. Era una bruzia che lui aveva riservato per sé nel saccheggio di Terina, poi distrutta. L’aveva posseduta tante volte, tante volte che messe insieme non ne facevano una.
Lei rimase ritta, olimpica nella sua tunica bianca con fibule di rame, e fermagli d’oro tra i capelli.
Lui la concupiva imbarazzato e ammirato. Perché lei non perdeva un’occasione per lanciargli addosso il suo disprezzo. Ma mai aveva visto una più bella e più inviolabile. “Vieni qui. Sai quante sarebbero onorate di essere al tuo posto. Nel giaciglio del grande Annibale!”
“Io no. Sei un vigliacco, puoi prendermi solo su una lettiera circondata dai tuoi militi. Che impresa! Senza il tuo esercito di canaglie non saresti nessuno. Forse un cieco prostrato nel pronao del tempio di Persefone, cui Mesma dà un obolo, per elemosina.” Aveva parlato lentamente, per penetrarlo.
“Non offendermi, non permetterti.”
“Sei un vile. Assali e spogli piccole acropoli distanti da Roma. Non hai il coraggio di scaglionare la tua accozzaglia sotto le sue mura, però.”
“Ai romani ho fatto mangiare la polvere. A Canne ne ho fatto massacro. I miei cavalli ritirandosi non avevano dove poggiare gli zoccoli e calpestavano i cadaveri schioppandoli”, con orgoglio.
“Anni fa. Poi hai depredato cittadelle indifese. Quando Roma ti sconfiggerà sarà per sempre. Tutto ciò che hai usurpato al tuo passaggio lo hai perso appena ti sei allontanato. Non ti appartiene niente qui in Italia. Tantomeno Mesma, puoi razziare il suo corpo, ma nulla mai di lei sarà stato tuo.”
La rabbia gli invadeva l’animo, come la sete il deserto sahariano, e cercò ristoro in un nuovo accerchiamento. “Però devi ammettere che sono valente di monta!”
Mesma sorrise. Ad altri suoi ricordi. “Il fallo italico si impenna maestoso, apre il mare.” Pausa. “Il tuo è un ladruncolo, un lombrico da schiacciare sotto un sandalo!”
Annibale si allungò di scatto verso il gladio ispanico, un gesto d’ira che sembrava una sentenza. Rimandata. In quell’istante il vocio esterno si solidificò in un veterano piombato nella tenda con la fretta di una sventura.
“Hanno ammazzato il generale Imilcone!”
L’occhio gli si ravvivò come una torcia, tanto da allumare l’elmo, la voce imperiosa: “La cavalleria in assetto. Immediatamente.”
Il sole di mezzogiorno ardeva la strada verso Kroton. Guadando il primo fiume abbeverarono gli animali, egli invece ponderava il promontorio sulla riva sinistra, che dominava il golfo. Su quell’altura una spedizione attica aveva fondato Skylletion verso il 730, ripopolando l’antico sito della Temesa ausonia. La polis ricca e fiorente aveva avuto una sorte propizia nella Magna Grecia. Ma nel 388 Dionisio il Vecchio aveva attraccato le sue navi nella baia di notte, aveva dato alle fiamme la città e deportato a Siracusa gli abitanti che aveva catturato. Quelli scampati avevano condannato la località e si erano insediati qualche chilometro più a sud, sulla riva destra del Corace, congegnando un nuovo porto, quello che lui occupava con i suoi reggimenti.
Percorse altre due miglia, avvistò il suo gruppo sul colle. Spronò determinato alla vetta. Seppe. Si avviò giù dalla china per qualche metro e gli si aprì davanti il dirupo che terminava al fiume. Tra le fenditure arti di corpi, luccichio di lance, uno scudo. Sulla sinistra la groppa di un cavallo crepato, ma come pronto ad arrampicarsi, nel caso gli fosse tornata la corsa. In fondo un altro stallone baio, ventre all’aria, con l’unica zampa integra trottava irriducibile l’ultimo tempo.
Si diresse dai prigionieri, già assicurati con funi, chiese: “Chi di voi è il migliore a lavorare l’argilla?
Dopo una riflessione: “Menesteo. E’ stato ad Atene da un famoso maestro.”
Annibale incaricò una pattuglia di abbandonare le donne e i figlioletti alla palude e di tornare dall’accampamento con gli africani, lasciando di guarnigione gli alleati e i mercenari. Poi impartì altri comandi, secchi e precisi.
Imilcone passando si era incapricciato di quella collina. Dal dolce pendio ai lati, tranne in quello che sporgeva sul fiume Scilo, dove sembrava esserne stato asportato un pezzo di netto, come un morso a una mela. Aveva contato gli edifici sul declivio e, lasciando proseguire il plotone, aveva deciso di scartare per un’irruzione, con una scorta minima. Erano quattro accoglienti dimore, con due fornaci e un magazzino traboccante di vasellame, orci, anfore. Di rinomati vasai, membri della comunità di Skylletion.
I predatori versarono le case sul piazzale: un anziano e consorte, tre coppie di adulti, una quindicenne e quattro bambini. Gli uomini con i polsi allacciati dietro la schiena, insieme alla vecchia e ai piccoli furono tappati nel deposito, con la porta sbarrata dall’esterno e sorvegliata da un soldato.
Imilcone spaventò con il pugnale sull’ombelico la minorenne, e se la trascinò in un locale. Lo stesso fecero i commilitoni con le matrone.
Menesteo, diciannove anni, era riuscito a nascondersi e restava riparato sotto un mucchio casuale di stoffe. Vide entrare l’adolescente terrorizzata da quell’energumeno che la insidiava, che la strapazzava, che si sbarazzava dell’armatura e le saltava addosso.
Solo un attimo, Brettia. Solo un attimo, Brettia. Solo un attimo, sorellina.
Imilcone cercava di inchiodare la fanciulla sgusciante, lo spiedo gli si ficcò nel rene. Mentre si girava il secondo colpo gli perforò il torace e lo uccise all’istante, sul letto. Una chiazza di sangue indicava il suo cuore, come un posto violentato.
Menesteo abbracciò Brettia ancora tremante, per calmarla, afferrò la spada del morto e si catapultò fuori. Schivò un altro locale di urli, e sorprese l’impaziente guardia del magazzino. Quindi liberò i parenti. Con quello che rimediarono e taglierini del mestiere stanarono gli altri bruti sgozzandoli.
Dopo una breve consultazione scelsero di gettare tutte le bestie nei crepacci, facendola apparire come una fatalità.
Ma lo squadrone di ritorno, assediate le abitazioni, aveva scoperto la verità da un bambino sotto tortura.
Al tramonto l’altura si presentò invasa da seimila cartaginesi, schierati a battaglia, anche se muniti di legname vario o di frasche, di rami. In cima la cavalleria numidica, come ali nere sui fianchi. Non c’era più traccia delle costruzioni, demolite e rase al suolo. Sulla sommità c’erano una profonda fossa e, steso, un lunghissimo albero sfrondato, che aveva la base bruciacchiata e all’estremità sottile una imbracatura di ferro con un appicco sporgente.
Ad un cenno alcuni frombolieri sollevarono il pizzo del tronco e altri vi infilarono, con molta cautela, un manufatto di terracotta largo un metro, dal foro già predisposto. Era una mezzaluna con le punte rivolte verso il basso, con al centro la scritta a rilievo “TANIT”.
Quindi si procedette al raddrizzamento del pino silano. Fu stabilizzato con macerie. Prima di ricoprire interamente la buca ci buttarono dentro un elmo, l’unica cosa ritrovata del generale. L’antenna si ergeva altissima sotto quella mezzaluna, sotto “TANIT”.
Altri opliti strascicarono i prigionieri legati con corde solo ai piedi, quasi impastoiati, e li sistemarono in serie a un paio di metri dal baratro. Il primo era il vecchio, poi i tre uomini, poi Menesteo, poi una giovane donna in tunica bianca con fibule di rame e fermagli d’oro tra i capelli.
Dall’esercito si levò il coro “O Tanit potente dea!” e subito dopo il suono di un corno di montone per il silenzio. Annibale invocò la mezzaluna innalzata con tutto il fiato: “O Tanit grande madre, ascolta. Ti dedico questa collina e ti sacrifico queste vittime. Tu veglia sulla sepoltura dei miei guerrieri, proteggi il loro sonno. Maledici chiunque violerà questo tuo territorio.”
Un brivido sfaccettato raggelò le vene degli ostaggi sul bordo del precipizio.
Menesteo considerò la sua età incompiuta come il cratere che stava dipingendo, una meraviglia interrotta. Il suo cuore cominciò a bussare veloce, non riusciva a leggere più un pensiero, tutto nel cervello gli sembrare mulinare vorticosamente, come la creta sul tornio. Ma quella sua sregolata tremarella non era paura, era solo la mossa dell’avvenire che si sbrigava dentro di lui, a viversi comunque una volta.
Mesma impassibile avvertì il suo tumulto, la sua esuberanza modellata dalla barbarie. Scostò il gomito e gli afferrò il cordone del chitone, per bloccargli quel gorgo di disperazione.
Annibale si sporse per godersi meglio lo spettacolo. Due punici di corporatura truculenta si avventarono sulle vittime. Snudarono le spade, le conficcarono fulminei nell’addome dei primi e li spinsero nel vuoto. Quindi immolarono gli altri.
Mesma e Menesteo, così teneri insieme.
Volarono nel tramonto rosato mano nella mano, come amanti acrobatici in un numero senza rischi. Lui atterrò su uno spuntone fracassandosi la schiena, ma lei se lo attirò in caduta.
Planavano sull’alveo sbagliando, richiamandosi scapigliati in arditi capitomboli, nell’arenaria sbiancata che tentava un pietoso placcaggio ad ogni ruzzolone.
Rimbalzarono sui ritagli acuminati di calcare senza un rintocco, tenendosi con quelle dita avvinghiate, come cotte nella fornace, nella passione.
Lei completò una graziosa capriola su una guglia sporgente che le squarciò il fianco pur di agganciarla. Dalla mano le penzolava nel vuoto il ragazzo, che sgambettava. Quando la costola le si spezzò ripresero a schiantarsi sino a stramazzare su una falda di roccia, piatta, come una lapide. Solo i lamenti di Menesteo, gremiti di gioventù, continuavano a precipitare di pietra in pietra, fino al fiume.
Non videro Mesma trascinare i dolori, gli organi superstiti, non la videro baciare gli avanzi della fronte e del viso di quello sconosciuto morente. Erano così teneri insieme, quasi dopo la vita, come dopo l’amore.
Intanto erano state accese le balle di paglia e rovesciate con delle pertiche nello strapiombo. Dapprima sfilò la cavalleria, sul bordo della rupe, nella quale ciascuno dei duemila numidi lanciò la sua fascina di frasche. Poi quattromila fanti marciarono per lo stesso sentiero, sgranati, come in una imboscata mortale, gettando ciascuno una fronda, arbusti.
Un fumo immenso si avvolgeva verso l’alto, come colmo d’anime, cercando il vento, come cercando il cielo.
Quando si alzò, la luna scoprì il dirupo tutto in fiamme. La sua collina sembrava un vulcano.
Sette giorni dopo Annibale s’imbarcò verso Zama. Era stato l’ultimo ad essere issato sulla trireme e allontanandosi dalla riva il suo occhio stava arpionando un addio allo Ionio italiota, limpido.
Trasalì bruscamente.
Aveva visto, diluita e flessuosa nell’acqua, la figura di una donna in tunica bianca con fibule di rame e fermagli d’oro tra i capelli, che gli offriva su una mano insanguinata un pugno di polvere.