Fu l’ultima occasione in cui Chiara incontrò Antonino. Giaceva contro il muretto del parco, era più lacero del solito, aveva una sofferenza sedata, come cotta da un morbo. Badò personalmente a recapitargli le vivande e risalendo il viale si girò spesso, perché si sentiva addosso gli occhi ardenti di quel giovane, ancora imbambolato con la roba in braccio, a rimpiangerla allontanarsi.

Qualche giorno dopo seppe dell’incidente.

Antonino aveva attraversato la statale, all’improvviso, come se sull’altra carreggiata avesse visto un fumante piatto di pasta. L’automobile non aveva potuto scansarlo. Era morto subito, senza neanche il tempo di una cura. E non era vissuto abbastanza per dare almeno un morso alla coscia del cavallo bianco.

La sciagura procurò tanta tristezza a Chiara che dovette andarsene al mare. Ma dopo una settimana lo sognò. Si alzò e di fretta si recò al cimitero. Antonino era stato sepolto nel suolo, alla testa del cumulo di terra c’era una croce di ferro segnata da un numero. Ci appese il suo regalo di nozze, come un rosario, secondo l’invito.

Era al cancello, in un abito nuovo, informale ma su misura: “Chiara, per favore portami la fionda. Non è per lanciarti un agnello arrostito, tanto a te non capita mai di coricarti digiuna. Portami la fionda, voglio fare un’altra cosa per te, se ci riesco.”

“Cosa?”

Lei sorrise alla risposta di Antonino. E se la sarebbe ricordata solo un’altra volta, con apprensione, il giorno prima di morire.