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Il padre dopo una decina di giorni ancora non parlava alla figlia, e si comportava come se lei non esistesse.
Erano sole, la vecchietta sfiorava Caterina sulla testa e le ripeteva: “Gioia di nonna! Tesoro di nonna!”
Il sole entrava dalla porta con un odore di patate fritte, quasi filtrasse da una cucina.
“Me lo dici chi è stato?”
La nipote rimase sotto le carezze, muta.
Allora lei cominciò a raccontare.
“Quando ero ragazza io, bei tempi come quelle distese di grano maturo, c’era un bisogno qui a Semelia e dintorni che neanche te lo immagini. Non avevamo niente, solo lavoro da un conte e da un barone. Loro avevano tutto, casini enormi, uliveti incalcolabili, frantoi e mulini, vigne sconfinate, mandrie e pascoli, vaste pianure coltivate a barbabietola. Si godevano insomma i possedimenti della fortuna in persona.
“La sonnolenza della malaria era proprio brutta, ma mai quanto la fame. Quando tuo padre aveva sette mesi e le minne mi s’erano prosciugate, non avevo nulla per nutrirlo. Allora masticavo un pezzetto di pane duro, poi dalla bocca mia passavo nella boccuccia del bimbo un po’ del biascicato. Come fanno gli uccelli. Non sai quante sere mi sono coricata affamata come una lupa, perché quello che c’era cercavo di darlo agli altri di famiglia. Mi andava bene quando avevo una manciata di lupini o un pugno di fave secche da abbrustolire nella cenere.
“Noi travagliavamo molto ma ci compensavano in prodotti e denari non ne vedevamo. Facevamo la raccolta delle olive in cambio di olio di sansa, la trebbiatura per avere farina. Quando cominciarono a pagare in soldi le cose piano piano migliorarono. Alla tua età avevo già fatto quattro annate alle olive e tre di grano. Due inverni di cicoria e misticanza.
“Noi donne uscivamo da Semelia la mattina presto, come uno sciame dall’alveare, per recarci a piedi alla fatica, occupando tutta la strada, che quando passava un carro doveva sostare. Una parata di miseria. Parlottando. Di figli, di mariti, di fidanzati. E poi ci sparpagliavamo sotto le piante di ulivi. E qualcuna cominciava una nenia e insieme la cantavamo fino al termine dell’orario, a scongiuro dell’indigenza.
“Oppure arrivavamo dal conte, uno scapolo porco e malvagio e prepotente. Non ci dava mai il pattuito, con una scusa qualsiasi o senza spiegazione ce ne toglieva la metà. Ma così stavano le cose e noi non potevamo rinunciare a quel già tanto poco che ce ne veniva.”
Il sole se ne era andato dall’uscio, perplesso.
“A sedici anni avevo un seno abbondante e bello come il tuo, Caterina, e due fianchi da giovenca.
“Quando toccò a me ero alla barbabietola, insieme a mamma. Fui scelta insieme ad altre operaie per dei servizi al casino padronale. Loro furono destinate in magazzino a sistemare provviste, io dovetti seguire il fattore nel palazzo, di cui ricordo solo che era immenso come un rione. Mi lasciò in una ricca sala e mi brontolò di aspettare. Io prevedevo il sopruso, tra noi si comunicava, c’erano passate tante prima di me. Agli uomini e ai mariti si taceva.
“Si aprì una porta e comparve il conte, grasso, in una vestaglia lucida annodata davanti. Con una occhiata lurida mi misurò il petto e mi intimò: “Stenditi sul pavimento!”
“Io rimasi dritta.
“Non ti conviene fare la santarellina, stenditi!”
“Io immobile.
“Sai non troveresti più lavoro, neanche tua madre, neanche tuo padre, insomma nessuno dei tuoi. Anche presso il barone, non mi farebbe mai un torto del genere.”
“Era come se mi avesse impiccato la gola con sei falcetti affilati, sai Caterina. E poi sapevo che non gli funzionava quel suo aggeggio quanto il turacciolo di sughero di una bottiglia, mi aveva confidato la mia comarella.
“Mi si strusciava addosso ansimante e sudaticcio, sbavando, arrotando il ventre su di me. Provavo tanto schifo. E una rabbia che a momenti gli battezzavo la testa col candeliere che mi stava accanto. Furono i falcetti a trattenermi.
“Quando smise di strofinarsi mi grugnì di restare ancora ferma. Si rizzò in piedi e mi urinò sulla natura. Ecco quello che noi non potevamo sopportare era l’umiliazione. E quel puzzo di piscio. Me ne andai dal palazzo intatta come ero entrata, ma con quel puzzo di piscio. Tornai al campo tra le braccianti che immaginavano. Mamma non mi disse una parola, ma la sera quando rientrammo mi consegnò in silenzio un pezzo nuovo di sapone. Sicuramente era capitato anche a lei. Ma quel puzzo di piscio non se ne andò mai dalla nostra carne. Nessuna di noi riuscì a mandarlo via, a non sentirlo più, neanche se ci fossimo messe in ammollo nella varechina.
“Un giorno trovarono il conte coperto di letame nella stalla dei cavalli. Non si seppe chi fu. Molti anni dopo vociarono che era stato compare Pasquale, a cui la moglie aveva raccontato tutto. Gli aveva teso un agguato e gli aveva conficcato nello stomaco il tridente della paglia e, mentre agonizzante gorgogliava nel sangue, compare Pasquale gli aveva pisciato in bocca.
“Al funerale del conte non partecipò nessuno. Il fattore fu tutto il corteo dietro al carro funebre. Aveva il fucile a tracolla e camminava dietro il morto roteando gli occhi intorno, temendo per la sua incolumità.”
“Anch’io gli ho conficcato un ferro da calza nella coscia, quando ci ha riprovato!” uscì da Caterina, come da una soprappensiero.
“Chi è stato?” chiese ancora la nonna, quasi smorzata, perché la frase della nipote era come una lucerna con cui lei già andava indagando nel recente passato, dettagli, parenti.
La giovane silenziosa si avviò in cucina a preparare l’insalata di pomodori, con cipolla e origano.
Il sole riapparve sull’uscio, come un ospite puntuale.
Una settimana dopo Caterina apprese, senza alcun conforto, come il cugino Giacomo, che intanto s’era sposato, la sera prima era tornato dalla moglie pestato bestialmente. Alle domande di lei che cercava di capire cosa fosse successo, aveva risposto invariabilmente: “Niente!” Dopo le insistenze aveva aggiunto: “Sono caduto.”
La sera prima quando il padre era uscito dopo cena. E quando era rincasato, non le aveva più tolto di dosso gli occhi, ma occhi pieni di tenerezza, di bene.