Chiara rimase vedova a trent’anni, col figlio di otto che somigliava tutto al padre. La stessa bellezza, ribadiva, ma quella del marito era più tenebrosa, quella di Alessandro più prassitelica.

Pur essendo in pieno fulgore non volle altri uomini. Ruggero era passato, ma continuava a vivere nel suo cuore, come il vento che era stato, selvaggio di dolcezza e disperato d’eternità.

Si dedicò totalmente al suo bambino, ma quando tornava da scuola non gli saltava addosso volando sul corrimano delle scale.

Con molto acume e tenacia s’interessò dei fondi che le aveva lasciato il coniuge e li fece fruttare come prima. Comprò una macchina azzurra e disbrigava personalmente gli affari nei vari uffici, nei quali si diffuse il mito di questa signora. In banca quando la vedevano entrare sospiravano che a voglia ad accumulare soldi sul conto, ad un tesoro come lei non si sarebbe arrivati mai. All’Ispettorato Agrario giuravano che Chiara era il miglior prodotto della terra di Calabria.

In quegli anni era facile avere la visione di una bellissima donna che attraversava il borgo, cavalcando impeccabile verso le proprietà. Chiara visitava i frutteti, i fabbricati, il mare.

E parlava a lungo con Francesco, che abitava con la moglie Agata e i quattro figli nella costruzione colonica dei pescheti, uno fedele con la pelle olivastra di fatica. Qualche volta si attardava a mangiare, magari un po’ di fagioli lessati nella pignatta al focolare, con quella famiglia semplice.

Spesso nella visione c’era anche il piccolo Alessandro, un altro angelo, che su un altro purosangue scalpitava accanto alla madre, in quelle loro cavalcate d’amore e di profitto.

Così donna Chiara viveva serena col figlio, ma con la solita tempesta nel cuore.