Del matrimonio se ne parlò per anni e anni a Semelia.

Don Ruggero s’era scelta la ragazza più aristocratica della regione, la più stravagante. Veramente l’aveva eletta per istinto, perché durante il brevissimo e morigerato fidanzamento non aveva potuto conoscerla molto. Ma Ruggero se la sentiva correre lanciata nel sangue, su un incantesimo misterioso.

Chiara Altavilla era bellissima, con rifulgenti occhi azzurri, e quei sorrisi aperti come a cambiare l’aria all’anima.

Dopo aver visitato i ristoranti più lussuosi, optò per un ricevimento sulla collina, secondo una vecchia usanza del luogo. Meravigliosa in un semplice abitino di seta cerulea, che sembrava avvolta in un attillato scampolo di cielo, tirandosi per mano quel dio tenebroso di Ruggero, era passata casa per casa, senza accedere, a consegnare la partecipazione verbale alle nozze. E con i modi suoi aveva invitato ogni persona della cittadina, specie al banchetto. Con la raccomandazione di intervenire senza busta o doni, infatti non si doveva considerarlo un impegno ma una festa.

L’avvenimento fu organizzato da un esaltato Ruggero. Il suo parco brulicò di lavori per oltre un mese, fino alla domenica stabilita. Un viavai di falegnami fabbri elettricisti sartine, oberati di legname ferro fili stoffe.

Cinquanta tra donne e uomini erano già all’opera dal sabato e dalla stessa mattina presto, quando, al ritorno dalla celebrazione in chiesa, il corteo nuziale varcò il cancello di ferro della villa, tutto infiorato.

Parcheggiarono certe automobili dei parenti di Chiara che a Semelia non s’erano mai viste, rutilanti di ricchi e di argento. Ed entrò il paese.

Il salone inferiore si riempì di regali d’ogni genere, di cristallerie stupende, e gli ori splendevano tanto che a momenti incendiavano i cassettoni di legno del soffitto.

Davanti al portale c’era il trono degli sposi, poi la tavola dei congiunti più stretti. Da lì si inoltravano tra gli alberi quattro mense lunghissime, coperte da teli colorati spiegati tra i rami. Altre tovaglie adornavano panche al centro delle file, imbandite di prelibatezze fredde, per antipasti.

Furono cotte oltre 200 teglie di lasagne, la carne di 5 vitelli, 80 agnelli e 30 maialini.

Le fisarmoniche cominciarono a suonare all’inizio del convivio e continuarono ininterrottamente fino al termine, perché i musicanti si alternavano.

Le famiglie comunque dedicarono un omaggio ai coniugi, magari una cosa alla buona. Come la vedova Assunta Bottaro che, in ritardo per vestire alla meglio i cinque figli, era salita, accompagnata dalla povertà, a salutare la sposa porgendole dignitosa un vasetto. Chiara l’aveva ringraziata affabilmente per essere venuta e: “Vado pazza per la marmellata di fichi! E’ graditissima.” Poi aveva incaricato un cameriere di provvedere alla signora e ai ragazzi.

C’erano cuoche che distribuivano da calderoni di rame una ghiottoneria piccantissima, preparata con la trippa e le frattaglie dei bovini macellati, chiamata “morzello”, che andava a ruba.

Cucinieri alimentavano le fiamme e arrostivano carni e fegati vaccini. Più giù altri badavano su rudimentali ma funzionali girarrosti a maialini e agnelli. Alcuni giovani spingevano carriole con braci e ravvivavano l’ardore delle griglie. Non si sa quanti erano i collaboratori. I capienti boccali travasarono 20 quintali di vino. Una cupola sfornava pane e taralli, caldi e speziati, come l’euforia.

Qualcuno si riforniva di cibo ed era ugualmente entusiasta di ingurgitarlo in piedi o appoggiato al fusto di una pianta. Ma tutti gozzovigliavano nella baldoria e bevevano giocondi, al ritmo delle fisarmoniche.

Anche Antonino era sopraggiunto in ritardo, perché per l’occasione si era fatto un bagno memorabile, dopo essersi purgato. Col suo titolo di scemo del borgo era avanzato tra le burla e i versacci delle tavolate, dapprima un po’ timido, poi sempre meno impacciato, protetto dalla dolce attenzione di Chiara. “Aaaguri!” e le consegnò un malloppetto di carta ruvida legato con lo spago delle salsicce. Lei lo scartò regolarmente: una fionda. Il giocattolo più caro, forse l’unico posseduto o rubato da quel giovane. Chiara afferrò la base della Y di legno e con l’altra mano tese gli elastici, mirando il petto dello sposo, con una vista da discola. Poi quasi paga di aver colpito il bersaglio, lo favorì: “Il tuo è il regalo più bello di oggi!”

Antonino orgoglioso e contento si allontanò verso il fondo dei commensali. E passando bisbigliava: “Sci sci sci!” cercando di imporre un po’ di silenzio. “Sci sci sci. C’è la luna che dorme!” suggeriva pure indicando il casino. Poi si sistemò su un macigno sotto una quercia secolare con un cosciotto di agnello in una pezza. E paragonando quel tronco enorme al suo appetito si spolpò la ciccia. Dopo disossò costole di maialino, si placò con due piatti di stufato e riattaccò con gli arrosti di vitello. I ragazzi vicini lo provocavano, ma lui era troppo impegnato e poi non gli sembrava il caso di fare figuracce in quell’evento, almeno fino a quando esasperato non scagliò ad uno di loro uno stinco ripulito e “mammata puttana”!

Quando lui sloggiò con gli altri, c’erano tante di quelle ossa attorno al leccio, che sembrava il bivacco di una combriccola. E da quel giorno Antonino, ogni notte che si coricò poco sazio, sognò immancabilmente di essere seduto sotto la quercia e Chiara Altavilla che con la sua fionda gli lanciava mezzo agnello arrostito.

Si consumarono quindi 10 vitelli, 150 ovini, 50 maialini e 300 teglie di lasagne. E 30 quintali di vino. E le fisarmoniche suonavano senza sputare.

C’erano più di mille persone in quel parco, eppure sembrava essercene specialmente una, neanche quel marito attraente come un dio tenebroso. Spiccava solo lei, che non girava tra gli ospiti per non creare imbarazzi. Solo Chiara che teneva tutti sotto il suo sorriso, anche il marito, come la primavera i fiori del prato.

Batterie di donne e uomini si affaccendavano elargendo l’abbondanza. Soltanto i festeggiati non mangiavano. Eppure ce n’era roba. Infatti furono rosolati almeno 15 vitelli, 200 agnelli, 90 maialini e sparirono 45 quintali di vino. Senza contare le casse di patate e di sedano e di finocchi, i sacchi di verdure e di lupini.

Poi servirono la sera. Ma gli alberi accesero tra i rami le lampadine, i giardini i loro falò, e prolungavano il crepuscolo.

Ma il riflesso più intenso proveniva sempre da quella sposa in bianco, una luminaria di gesti briosi, esclamazioni armoniose, vezzi raggianti.

La torta era immensa e rotonda come la luna. Che si era ormai svegliata per il chiasso e la musica e, alzatasi storta, già guardava dal cielo lo spettacolo sulla collina.

Dove si banchettava ancora, con dolcetti secchi, confetti, con motivetti popolari, e le fisarmoniche suonavano sempre. Ad un tratto dall’allegria e dalle gambe scappò una irrefrenabile voglia di ballare, che i più sbrigliati catturarono intorno ai fuochi, improvvisando le coppie, scialandosi.

A quella festa sembravano mancare solo gli angeli con i mandolini. Ma alla fine qualcuno disse di averli visti pure. Assettati sui teli sopra le tavole, a scolaresche. E non cantarono perché non ci fu una pausa per inserirsi.

Ruggero che preferiva oscuramente il distacco rimase folgorato dalla consorte ventunenne. Se l’era goduta estasiato, lei aveva ricevuto nobili e poveri con il garbo appropriato, con la stessa squisitezza. Lei aveva una scorciatoia per il cuore del prossimo. E siccome anche lui ne aveva uno, si tranquillizzò.

Dopo dieci ore le fisarmoniche tacquero. I convitati, ormai sicuri che don Ruggero n’aveva trovato parecchie pentole piene di soldi, sfollarono a gruppi. Con le bomboniere e con le stoviglie usate in regalo, come ricordo. Reggendosi l’un l’altro invasero le vie vuote del paese, intonando sparsi cori di “Viva gli sposi!”, indovinando le abitazioni.

Anche le macchine dei ricchi accelerarono con furore, per ritornare nel futuro dal quale sembravano partite.

Quando nel parco si spensero le luci e le voci, Ruggero prese la sposa sulle braccia per portarsela in casa, ma sulla soglia lei pretese di scendere e, mano nella mano, entrarono solenni insieme. Poi lui la risollevò e decollò in camera.

Chiara si era spogliata con una naturalezza impareggiabile e Ruggero assistette a tanta grazia di madre natura che non se la sarebbe mai aspettata, tanto da voler irrompere in quelle delizie con una impazienza irresistibile. Ma si sbagliava. Quella sera lei capì quanto era irascibile il marito e lui come il carattere della moglie fosse un tesoro favoloso custodito in uno scrigno a combinazione, impossibile da scassinare.

Lei con un contegno affettuoso ma deciso lo pregò di rimandare all’indomani, erano stanchi e già abbastanza beati.

Lui sentiva ragioni, ancora di più desiderio. Fino all’esasperazione: “Porco mondo, ma sei mia moglie o no?”

“Sì. Ma prima di ogni cosa sono Chiara.”

E quando osò una mano sul pube, si vide arrivare uno schiaffo. Egli detestava dare un ceffone ad una donna, ma pure tenerselo e lo restituì. Chiara colpì la faccia del marito. Che centrò il viso di lei. Che ripagò con più forza. Lui lo rimise, scorrendo con la libidine quello stupendo corpo seminudo. Non aveva ancora completato l’inventario dei beni che lei gli recapitò la sonora risposta. Picchiavano inconciliabili.

Non si sa chi fu l’ultimo a buscarsi la sberla e a lanciarsi sull’altro per accapigliarsi. Ma trovandosi assaliti nella zuffa, con le dita addosso per la furia rabbiosa, si sorpresero invece ad accarezzarsi, a sciuparsi la pelle di passione. E allora cominciarono a baciarsi con la stessa intensità, la stessa arsura dell’ira precedente, e si amarono e s’invasero e si colmarono, perdutamente. Rabboccandosi tutta la notte.

La mattina presto Ruggero era corso all’azienda perché aveva un importantissimo collaudo dei lavori avviati.

Chiara si destò radiosa come il nuovo giorno. Aprì le persiane e il suo sguardo nuotò il panorama fino al mare insonnolito. Poi si presentò al torrente, alla rupe. Indugiò con gli occhi all’angolo del casale. Sul filo appena collegato dei panni c’era appeso un paio di mutandine, di pizzo e merletti pregiati, bianche. Antiche.