Don Ruggero Corallo era stato un uomo nobile, con un carisma oscuro ma fascinoso, iracondo come nessuno, l’unico a non averlo visto arrabbiato era stato il figlioletto.

Lo credevano un diavolo perché attraversava il paese con la carrozza lanciata, agitato in un pastrano nero, sotto un cappello nero, alla guida di cavalli neri.

A diciannove anni fece vendere il bestiame al padre, che era un benestante proprietario di una vasta pianura adiacente al mare, e col ricavato acquistò i terreni limitrofi, apparecchiando una immensa azienda. Arò le pasture e convertì i campi, primo nella zona, in prodigiosi agrumeti e pescheti.

A Semelia qualcuno mise in giro la voce che don Ruggero aveva trovato da qualche parte una fortuna, una pentola piena di soldi d’oro, quando ventiduenne comprò non si sa da chi il casino abbandonato sulla collina. Lo avevano sconsigliato, gli avevano addirittura assicurato che in quell’edificio campava il fantasma di una ragazza uccisa che tormentava chiunque osava dimorarci: gli grattava i piedi nel sonno fino a svegliarlo e scacciarlo.

Lo fece ristrutturare per stabilirci la sua residenza, a dispetto di quanto si contava nelle contrade. La diceria comunque aveva salvato dal saccheggio la costruzione, ripostiglio di disgrazie.

Durante i lavori si presentò il problema dell’ultima stanza lato torrente. La porta era dipinta: collane di ogni tipo, di conchiglie, corallo, lapislazzuli. Non aveva maniglia, solo una serratura chiusa dall’interno, perché si spiava la chiave d’oro.

Don Ruggero capì che quella era la camera della baronessina e che era rimasta bloccata da allora. Decise di non forzare la porta, anche per non rovinarne la decorazione. Due scale furono legate in modo da farne una lunga, che fu appoggiata alla parete prospiciente il bordo dei crepacci. I manovali la reggevano quando lui salì a quella finestra con le persiane accostate, che spalancate se lo ingoiarono tutto. Dopo cinque minuti riapparve sul davanzale e scese rabbuiato, mentre i muratori morivano dalla voglia di sapere se veramente c’era la luna che ci dormiva. Ma non osarono chiederlo. Lui disse soltanto che era stata appena rassettata, di non violarla.

Liquidato il cantiere, arredò la stanza vicina a quella serrata e ogni sera ci andava a coricarsi da solo, attraversando il paese con la carrozza trainata da cavalli neri, e sempre in fuga. Nera.

Una notte la sognò. La ragazza si slacciò i capelli: “Ciao. Sono Iolanda”, disse semplice, spogliandosi.

Restò incantato dalla bellezza di quel corpo turgido di stupori, con due seni abbondanti e dritti. E mutandine di pizzo e merletti pregiati, bianche. Antiche.

Lei intanto gli si era offerta accanto, sotto le coperte: “Non immagini da quanto tempo voglio essere finalmente di un uomo e ho privilegiato te. Ancor più che possiamo farlo in casa. Sai, sono ancora vergine.” Tenera e ansiosa.

Ruggero consumò una passione indimenticabile con quella magnifica diciottenne. La mattina si svegliò trafelato, mentre l’esperienza ancora accadeva.

Una nebulosa filante di dolcezze in rincorsa e carezze e affanni e adagi addensati e idoli nuovi. Una frana rallentata di profili di felicità, di fiocchi di gloria.

E andò ad aprire le imposte annuvolato, come l’alba sul torrente. Quindi ritornò al letto e lo scoprì.

Sul lenzuolo c’era una grande macchia di sangue.