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Due giorni prima di essere ucciso, Alessandro iniziava il crepuscolo nella sua stanza, ospitando una noia. Aveva sentito il fuoristrada allontanarsi, Albertina andava in libreria a Catanzaro.
“Caterina!” aveva chiamato vedendola passare nel corridoio.
“Dimmi.”
“Per piacere me la fai una bevanda bollente?”
“Com’è? stai male?”
“Vorrei un po’ di calduccio.”
Lei aveva preparato l’infuso consapevole che il gelo il signorino ce l’aveva nel petto, con quella moglie. Posò il vassoio sullo scrittoio e zuccherò la tisana, la sua convinzione: “Questa non ti riscalderà!
“Meglio di niente!…”
“Meglio di niente c’è Caterina!” le uscì, come se offrisse un’altra, arrossendo.
Lui sobbalzò. Quanto tempo era passato dal loro ultimo saluto nelle stalle! Lei era diventata solo una presenza amorevole, un’abitudine preziosa della quotidianità, perché lui non l’aveva vista più, sì, non come in quel momento, svestendola sempre magra, formosa, con quei suoi spruzzi gioviali negli occhi, scuri come un desiderio proibito. Meravigliato di quella sensualità e rigattiere di un antico amore, di gioie ripudiate, beato le tese le braccia.
E Caterina se lo tenne a lungo nell’intimità, incredula per quanto gli aveva conservato. Poi avvinti si erano affacciati alla finestra sul dirupo, come facevano da ragazzi. Guardando la notte, ognuno la propria gioventù.
In silenzio. Lui le era scivolato dietro, con le dita sui fianchi. “C’è Caterina?” sussurrò.
Lei si era inarcata, immediatamente: “Sì, c’è sempre per te!” Ma quella secchezza che l’affliggeva ormai dalla precoce menopausa era stata più lenta delle intenzioni a sciogliersi. E stringeva tra i denti la manica della camicetta. E la luna si muoveva, si muoveva.
Dopo il funerale Caterina era affranta, affacciata da sola sullo strapiombo, ma anche felice che il signorino se n’era andato col suo amore, l’ultimo sapore di femmina era stato il suo. Com’era stato il primo. E la sera neanche si coricò, si abbandonò sulla sdraio del terrazzo. Sotto la luna, fissa. E piangeva.